...nihil humani a me alienum puto

Conversazione sul romanzo "Il Gattopardo"

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.Sabato 29 marzo 2014 alle ore 18,00  (Palazzo Bonocore - Palermo)

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 Conversazione sul Romanzo "Il Gattopardo" con il prof. Andrea Badalamenti

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......................Prof. Andrea Badalamenti (relatore) 

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Dice Jean Guitton che "il merito di un bel libro è di farci partecipi dell'eperienza di un altro essere, cosa impossibile in questo mondo, anche quando si tratta dei nostri intimi". E, poco più avanti, aggiunge: "il libro ci mette al centro di uno spirito che ci è estraneo, ci dona la sua essenza stessa".

È proprio questo che accade quando si legge con attenzione e profondità un romanzo, ed è quello che cercherò di descrivere – così come è accaduto a me – in questa conversazione.

L'interesse per il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è stato sempre vivo in me fin dal mio primo incontro con esso, risalente ormai a qualche lustro fa... I miei amici sapevano di questa mia preferenza (perché una delle cose belle dell'amicizia è comunicarsi reciprocamente anche queste cose); così, quando don Giussani – ormai una ventina di anni fa – espresse il desiderio di pubblicare un articolo sul Tracce, giudicando questo come uno dei più grandi testi narrativi della letteratura italiana del Novecento, ricordandosi della mia predilezione per quest'opera, la mia amica Giovanna mi chiese se ero disponibile a farlo, ottenendo da me una "entusiastica e tremante" risposta affermativa. Nel giro di pochi mesi (i miei tempi di reazione non sono mai stati fulminei) il lavoro fu condotto a termine, fino alla pubblicazione dell'articolo nel numero di giugno del 1996 del "Tracce" stesso.

Perché racconto questi fatti, se non "preistorici", almeno "protostorici": perché la cosa più interessante che mi è capitata in quella circostanza è stata quella di dovermi domandare perché mi piacesse il romanzo, cosa che, fino ad allora, avevo dato assolutamente per scontata. Avevo, infatti, un vago ricordo di talune sollecitazioni estetiche e contenutistiche, che si fondevano confusamente con le suggestioni provenienti dalla memoria della visione della versione cinematografica di Luchino Visconti.

Dopo un primo momento di angoscia, mi dedicai con passione alla rilettura attenta del testo tenendo sempre vivo in me il desiderio di immedesimarmi nel cuore, nella sensibilità e nell'intelligenza di don Giussani (che, come si può facilmente comprendere, è stato e continua ad essere per me un vero e proprio maestro), domandandomi continuamente: "perché a lui piace?"; "cosa ci trova di così interessante da definirlo in questo modo?"

Certamente, pensavo, non sarà per la stessa ragione per cui piace ai più, per il solito discorso sulla indolenza dei siciliani; per il disincanto del "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi" o per l'acutezza del giudizio storico espressovi dall'autore.

Con questa costante preoccuazione, quindi, sono arrivato alle conclusioni di cui oggi parlerò.

Ancora una volta Guitton sostiene che "bisogna leggere dei romanzi per conoscere il senso della nostra vita e della vita di coloro che ci circondano e che l'ottusità della vita ci nasconde. Bisogna leggere dei romanzi per penetrare in ambienti sociali diversi dal nostro (si pensi, ad es., al mondo dell'alta aristocrazia siciliana a cavallo tra '800 e '900 ed al corrispondente ambiente medio-borghese rappresentati nel romanzo...) e per ritrovarvi, sotto le differenze esteriori, la somiglianza della natura umana; per analizzare i problemi fondamentali che sono quelli del peccato, dell'amore e del destino, e tutto ciò in modo concreto e senza le trasposizioni della morale; per arricchire insomma la propria vita con la sostanza e la magia di altre esistenze".

E aggiunge anche, in seguito: "non è senza motivo che i maggiori successi vadano a coloro che sanno raccontare, come i nomi di Omero, di Cervantes o di Hugo indicano. Ma bisogna riconoscere che in questo campo il talento è raro. (...) Il difficile è di saper inserire una verità, un carattere, una misteriosa semenza."

Certamente, questo talento non mancava a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, né la capacità di inserire quella "verità", quella "misteriosa semenza" cui allude lo scrittore francese.

Peccato, amore, destino: sono questi, quindi, i problemi fondamentali della vita dell'uomo che Guitton ci segnala, e approfitterò di queste tre parole, quindi, per seguire una sorta di traccia schematica che mi permetta di riordinare tutti i pensieri e le corrispondenze nati in me durante la lettura.

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1) IL PECCATO

L'affresco narrativo del romanzo abbraccia la vita nella totalità delle sue espressioni. Nulla è omesso o censurato di ciò che è umano, neanche l'abiezione e la fragilità, l'incapacità di sostenere un ideale più grande delle proprie forze.

Il senso del peccato è acuto, doloroso, genera nello spirito del Principe ("autoritratto lirico e critico insieme" - come scrisse Giorgio Bassani – dell'autore) una inquietudine che lo porta ad un turbamento interiore fatto di contraddizioni continue tra un vano tentativo di autogiustificazione e la consapevolezza oggettiva - lucidamente e lealmente riconosciuta - del proprio errore.

Vediamo come viene reso tutto questo in un brano assai significativo del I Capitolo:

"Sono un peccatore, lo so, doppiamente peccatore, dinanzi alla legge divina e dinanzi all'affetto umano di Stella. Non vi è dubbio, e domani mi confesserò a padre Pirrone." Sorrise dentro di sé pensando che forse sarebbe stato superfluo, tanto sicuro doveva essere il Gesuita dei suoi trascorsi di oggi. Poi lo spirito di arzigogolìo riprese il sopravvento: "Pecco, è vero, ma pecco per non peccare più oltre, per non continuare ad eccitarmi, per strapparmi questa spina carnale, per non esser trascinato in guai maggiori. Questo il Signore lo sa." Fu sopraffatto da un intenerimento verso se stesso. "Sono un pover'uomo debole" pensava mentre il passo poderoso comprimeva l'acciottolato sudicio, "sono debole e non sostenuto da nessuno. Stella! si fa presto a dire! il Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent'anni. Ma lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche." Il senso di debolezza gli era passato. "Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio, e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione, non sa dire che: 'Gesummaria!' Quando ci siamo sposati, quando aveva sedici anni, tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto da lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?" Gridava quasi, eccitato dalla sua eccentrica angoscia. "È giusto? Lo chiedo a voi tutti!" E si rivolgeva al portico della Catena. "La peccatrice è lei!"

Questa rassicurante scoperta lo confortò e bussò deciso alla porta di Mariannina."

L'episodio da cui è tratto il brano è quello in cui don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, si reca a Palermo dalla sua villa di S. Lorenzo ai Colli per incontrarsi con Mariannina, una giovane prostituta della città, dopo la cena della sera in cui s'avvia l'azione narrativa. Sceso dalla carrozza, dove ha lasciato il prete di casa, il Gesuita padre Pirrone (personaggio umoristico, ben poco entusiasta di aver dovuto accompagnarlo), il Principe prosegue a piedi attraverso vicoli malfamati del centro cittadino lasciandosi andare ad un tumulto di pensieri e riflessioni sull'atto che sta per compiere, reso dal narratore nella forma del discorso diretto proprio al fine di rendere con maggiore vivacità, come "in presa diretta", la vorticosità contraddittoria del turbamento interiore di don Fabrizio.

Contraddizione che non è affatto sanata dal tentativo affannoso di individuare giustificazioni al tradimento che stava per consumare, sottolineato dall'anafora del "per", ripetuto in maniera quasi ossessiva per ben 4 volte consecutive accanto alla ripetizione dei verbi "pecco", "pecco", "peccare", in un patetico tentativo di controbilanciarne il peso quasi schiacciante.

Ma la contraddizione insanabile si rivela con evidenza ancora maggiore nell'accostamento antitetico dei due aggettivi "debole" e "poderoso", ulteriore segno di quel tentativo di autogiustificazione che domina tutto il monologo, la cui composizione frammentata, fatta di frasi brevi e talora anche incomplete, rivela ancor più lo stato di agitazione di don Fabrizio.

Tuttavia, l'uso del monologo permette anche all'autore di oggettivare la situazione descritta e di riservarsi, quindi, anche degli spazi di intervento personale per arricchire, ma al tempo stesso smussare, i toni della situazione. Appare evidente, così, la connotazione fortemente ironica dell'intervento del narratore, che si esprime, ad es., nell'uso di un termine insolito come "arzigogolìo", così come nella laconicità (starei per dire "manzoniana") della frase "il senso di debolezza gli era passato"; nell'adozione dell'aggettivo "eccentrica" per definire l'angoscia, ma - in modo ancora più efficace - nell'allusività reticente dell'ultima frase: "questa rassicurante scoperta lo confortò e bussò deciso alla porta di Mariannina."

Di ben diverso tono è l'intervento dell'autore in un brano immediatamente successivo, in cui lo squallore del peccato si rivela per quello che è, generando nel personaggio una dolente e commossa tristezza per l'abbrutimento da lui stesso procurato, clima, comunque, stupendamente anticipato anche nell'episodio che abbiamo appena esaminato dalla frase: "Fu sopraffatto da un intenerimento verso se stesso."

Leggiamo ancora:

"Ma che tristezza, anche: quella carne giovane troppo maneggiata, quella impudicizia rassegnata; e lui stesso, che cos'era? un porco, e niente altro. Gli ritornò in mente un verso che aveva letto per caso in una libreria di Parigi, sfogliando un volume di non sapeva più chi, di uno di quei poeti che la Francia sforna e dimentica ogni settimana. Rivedeva la colonna giallo-limone degli esemplari invenduti, la pagina, una pagina dispari, e ruvida di versi che stavano lì a conchiudere una poesia strampalata: ...donnez-moi la force et le courage de contempler mon coeur et mon corps sans dégoût.".

Emerge qui, in primo luogo, un atteggiamento di profonda COMPASSIONE per la fragilità dell'uomo, riconosciuta come condizione ineludibile in primo luogo per il Principe stesso. È commovente, in tal senso, sorprendere lo sguardo colmo di tenerezza con cui il Principe, durante la "scappatella" erotica con Mariannina, guarda a sé ed alla stessa prostituta.

E non vi è traccia alcuna, al contempo, né di moralismo né di volontarismo etico, ma, al contrario, solo un riconoscimento sincero del bisogno che qualcun altro permetta all'uomo la grazia della moralità: "donami la forza ed il coraggio di guardare il mio cuore ed il mio corpo senza disgusto", dice il brano della poesia in francese riportata (se la mia traduzione è corretta...).

Siamo di fronte, dunque, ad un senso vivo del peccato, che è inteso come turbamento dell'ordine e dell'armonia dell'universo, se è vero che, verso la conclusione del I capitolo, al termine di una accesa discussione col padre Pirrone, l'autore commenta:

"Così ragionava il Principe, dimenticando le proprie ubbie di sempre, i propri capricci carnali di ieri. E per quei momenti di astrazione egli venne, forse, più intimamente assolto, cioè ricollegato con l'universo, di quanto avrebbe potuto fare la benedizione di padre Pirrone."

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2) L'AMORE

Molto spesso, nel romanzo, Tomasi indugia nella considerazione dell'amore umano, visto "in azione" e senza infingimenti o astrattezze romantiche, riconducendolo ad un clima dominante di disincantato realismo.

Un primo esempio è quello appena analizzato, dove si oppongono un amore coniugale insoddisfatto ed uno "mercenario" carico di rimorso.

Ma anche l'entusiasmo tutto giovanile della figlia Concetta, prima, e - soprattutto - di Tancredi e Angelica dopo, viene sempre filtrato dallo sguardo amaramente scettico del Principe (II capitolo).

"L'amore. Certo, l'amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos'era l'amore... E Tancredi, poi, davanti al quale le donne sarebbero cadute come pere cotte..."

Si tratta di un'amarezza che, dietro un atteggiamento sostanzialmente cinico, nasconde, a mio parere, tutta la potenza di un desiderio di stabilità, di eternità e profondità dell'amore umano e, al tempo stesso, tutta la disperazione per la sperimentata, quasi ontologica impossibilità di appagare, nell'esperienza, tale esigenza profondamente umana.

Come si legge, con evidenza maggiore, in un altro brano del VI capitolo, quello del mitico ballo a palazzo Ponteleone.

"Bello, don Calogero, bello. Ma quello che supera tutto sono i nostri due ragazzi." Tancredi e Angelica passavano in quel momento davanti a loro, la destra inguantata di lui posata a taglio sulla vita di lei, le braccia tese e compenetrate, gli occhi di ciascuno fissi in quelli dell'altro. Il nero del frac di lui, il roseo della veste di lei, frammisti, formavano uno strano gioiello. Essi offrivano lo spettacolo patetico più di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. Né l'uno né l'altro erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete; ma entrambi erano cari e commoventi, mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all'orecchio, dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire."

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3) IL DESTINO

Ma ogni aspetto dell'esistenza quotidiana, dal più banale al più clamoroso, subisce per Tomasi di Lampedusa la tacita, incombente presenza del destino (come s'è già potuto intuire dalla lettura di tutti i brani fin qui proposti), di un destino che assume un nome e dei connotati ben precisi.

Si tratta della morte. Una morte che, dall'episodio del soldato in giardino alla conclusione stessa del romanzo, appare al Principe come un evento desiderabile, atteso per tutta la vita come approdo, porto di pace cui tendere, cui consegnare finalmente l'estrema, assoluta inconsistenza dell'essere.

È la morte, quindi, che sta dietro ad ogni istante, nel fondo di ogni evento, nelle pieghe riposte di ogni pensiero di don Fabrizio: è lei che ammicca, silenziosa, perfino nei momenti più sovrabbondanti di vita.

Così, sempre durante il ballo, contemplando in disparte, mentre negli altri saloni la festa è al culmine del suo svolgimento, un quadro raffigurante la Morte del giusto, don Fabrizio torna a meditare su di essa:

"la considerazione della propria morte lo rasserenava tanto quanto lo turbava quella della morte degli altri; forse perché, stringi stringi, la sua morte era in primo luogo quella di tutto il mondo?"

Ed è la costante presenza di essa che permette al Principe di guardare in modo diverso, più umano forse, quella variegata galleria di umanità miseramente arrivista, corrotta, infinitamente distante dall'aristocratico e nobile distacco del Principe, la quale andava in quel momento assumendo la leadership politica ed economica del nuovo stato unitario. Il disprezzo nei confronti dell'arrivismo volgare dei Sedara ("Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene...") è repentinamente mitigato e trasformato in compatimento allorché don Fabrizio torna a guardare a costoro con uno sguardo dominato dalla discreta presenza proprio della morte:

"Don Fabrizio, ad un tratto, sentì che lo odiava; era all'affermarsi di lui, di cento altri suoi simili, ai loro oscuri intrighi, alla loro tenace avarizia e avidità che era dovuto il senso di morte che adesso, chiaramente, incupiva questi palazzi; si doveva a lui, ai suoi compari, ai loro rancori, al loro senso d'inferiorità, al loro non esser riusciti a fiorire, se adesso anche a lui, don Fabrizio, gli abiti neri dei ballerini ricordavano le cornacchie che planano, alla ricerca di prede putride, al di sopra dei valloncelli sperduti. Ebbe voglia di rispondergli malamente, d'invitarlo ad andarsene fuori dai piedi. Ma non si poteva: era un ospite, era il padre della cara Angelica. Era forse un infelice come gli altri. [...] Don Fabrizio sentì spetrarsi il cuore: il suo disgusto cedeva il posto alla compassione per tutti questi effimeri esseri che cercavano di godere dell'esiguo raggio di luce accordato loro fra due tenebre, prima della culla, dopo gli ultimi strattoni. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? Voleva dire esser vili [...]. Non era lecito odiare altro che l'eternità."

Ma perché l'uomo cerca la morte? Qual è il fascino che essa esercita sull'autore, così da renderla protagonista fino a questo punto del suo romanzo?

Fin dall'avvio l'autore si domanda il senso di questo evento inesorabile, come accade in occasione dell'episodio del soldato morto in giardino:

"Perché morire per qualcheduno o per qualche cosa, va bene, è nell'ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia."

Allo stesso modo, nel tentare un "bilancio consuntivo" della sua vita all'approssimarsi del proprio trapasso, il Principe cerca di scovare, confuse tra "l'immenso mucchio di cenere delle passività, le pagliuzze d'oro dei momenti felici":

"Nell'ombra che saliva si provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto. Il suo cervello non dipanava più il semplice calcolo: tre mesi, venti giorni, un totale di sei mesi, sei per otto ottantaquattro... quarantottomila... √ 840.000. Si riprese. 'Ho settantaré anni, all'ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due... tre al massimo.' E i dolori, la noia, quanti erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto."

Tutto sembrerebbe condurre ad un'ultima, cinica disperazione, se guardiamo alla straziante, amarissima conclusione del romanzo. Tutto è finito: il tempo ha corrotto, annientato tutto ciò che un tempo era vita pulsante. Anche il cane Bendicò, una volta simbolo della più incontenibile e istintiva vitalità, si trasforma in un macabro fantasma del nulla:

"Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l'umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo, quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l'immondezzaio visitava ogni giorno. Durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell'aria un quadrupede dai lunghi baffi, e l'anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida."

Eppure, c'è un'altra possibile interpretazione che – ad uno sguardo più profondo – forse l'autore stesso lascia aperta in qualche piega riposta della sua opera.

Non coincide, forse, la domanda sulla morte con quella sul senso della vita? Solo stando di fronte ad essa, infatti, nel romanzo scaturisce prorompente il desiderio di individuare la consistenza ultima dell'esistere.

Ed è per questo, in ultima analisi, che la morte diventa una realtà desiderabile, addirittura una "giovane signora", bella e affascinante:

"Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora; snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere una maliziosa avvenenza del volto. Insinuava una manina guantata di camoscio fra un gomito e l'altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com'era si fosse arresa a lui; l'orario di partenza del treno doveva essere vicino. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo, e così, pudica, ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l'avesse intravista negli spazi stellari."

Il fragore del mare si placò del tutto.

La morte è desiderabile perchè è la porta del mistero, è la condizione inevitabile da attraversare perché l'uomo comprenda fino in fondo il mistero che la vita stessa rappresenta.

Ed è riconosciuta come la sola possibilità che l'uomo ha - paradossalmente - per sperare in una consistenza duratura, in una parola: per sperare nell'eternità:

"Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere, andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente, come i granellini si affollano e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia. [...] Questa sensazione non era per nulla sgradevole: era quella di un continuo, minutissimo sgretolamento della personalità congiunto al presagio vago del riedificarsi altrove di una personalità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga. Quei granellini di sabbia non andavano perduti, scomparivano ma si accumulavano chissà dove, per cementare una mole più duratura."

Perciò l'apparente inconsistenza delle cose non costituisce l'ultima parola: il nichilismo non vince del tutto.

Esso è combattuto da un estremo sussulto di realismo, che riafferma il desiderio inestirpabile di durata, di eternità, di consistenza del reale che costituisce il cuore dell'uomo.

Ma è proprio questa la "misteriosa semenza" che Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha voluto inserire nella sua opera?

Qui sta tutto il rischio dell'interpretazione.

Grazie per la paziente attenzione.

 

 

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