Il nome di Dio è Misericordia
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VIDEO DELL'INCONTRO
PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
SINTESI DELL’INTERVENTO DI
DON LIRIO DI MARCO
PERCHÉ COMPRARE QUESTO LIBRO.
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Un buon motivo potrebbe consistere nel nome stesso del suo autore: Papa Francesco è un uomo che è già entrato nella storia dell'umanità e, soprattutto nel cuore di ogni uomo, credente o non credente non importa. Il suo linguaggio è fatto di parole e gesti semplici che almeno per un attimo bloccano tutta la nostra distrazione e superficialità e ci costringono a capire che ogni uomo, a qualunque popolo, fede, cultura appartenga, è un bene che va amato e salvato.
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Un altro motivo potrebbe essere il genere letterario del libro: un'intervista. Come sappiamo esistono tre tipologie d'interviste: strutturata (con domande e temi già fissati in anticipo dall'intervistatore e conosciuti dall'intervistato), libera (in forma colloquiale senza domande prefissate, solo degli argomenti da affrontare), semistrutturata (una via di mezzo, con un elenco di domande che servono da bussola per rimanere nel tema da trattare). Nell'introduzione Tornielli dice di aver fatto avere al Papa solo qualche giorno prima "un elenco di domande e argomenti da trattare". Si tratterebbe dunque di un'intervista strutturata, ma la lettura del libro rivela un andamento meno formale e più colloquiale sul tema della misericordia di Dio.
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Un altro motivo sta nel modo di comunicare di Papa Francesco la verità evangelica, molto simile a quella di Gesù: semplice e immaginifico. Semplice e, quindi, capace di toccare il cuore delle questioni. Immaginifico: abbondano le similitudini prese dalla vita, dall'esperienza, per descrivere che cosa è l'uomo, cosa è Dio e cosa è la Chiesa. L'uomo peccatore non è un asino caduto che va picchiato ma aiutato a rialzarsi, Dio s'infila nel piccolo spiraglio che l'uomo gli offre con la sola vergogna del suo peccato, quest'ultimo non deve fare come il cane che si lecca le ferite ma deve lasciarsele curare da quell'ospedale da campo che è la Chiesa, la confessione non è come la tintoria che toglie la macchia.
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Il vero motivo sta nel fatto che questo libro dice la verità su ciò che è l'uomo e ciò che è Dio.
A.L'uomo è un essere profondamente ferito.
Per il Papa questo "è un dato del quale si può fare esperienza. La nostra umanità è ferita. Sappiamo riconoscere il bene e il male, sappiamo che cosa è male, cerchiamo di seguire la via del bene, ma spesso cadiamo a motivo della nostra debolezza e scegliamo il male. È la conseguenza del peccato di origine (...) di Adamo ed Eva, la ribellione contro Dio che leggiamo nel Libro della Genesi (pp. 57-58). Il Papa stesso dice di essere segnato da questa profonda ferita: "Il Papa è un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio". E fin qui ci siamo, ma egli dice qualcosa che stupisce: "Ogni volta che varco la porta di un carcere per una celebrazione o per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte. (p. 57)
Il dramma moderno è che oggi l'umanità non sa come curare questa ferita o crede che non sia possibile curarla: "A questo si aggiunge oggi anche il dramma di considerare il nostro male, il nostro peccato, come incurabile, come qualcosa che non può essere guarito e perdonato. Manca l'esperienza concreta della misericordia. La fragilità dei tempi in cui viviamo è anche questa: credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva, ti inonda di un amore infinito, paziente, indulgente; ti rimette in carreggiata. Abbiamo bisogno di misericordia. (pp. 30-31).
Di fronte a questa consapevolezza l'uomo ha due possibilità:
o far diventare il peccato corruzione;
o presentarsi dinanzi a Dio.
Papa Bergoglio conosce e descrive bene queste due posizioni. La corruzione: "è il peccato che invece di essere riconosciuto come tale e di renderci umile, viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere (...). Il corrotto è colui che pecca e non si pente, pecca e finge di essere cristiano, e con la sua doppia vita dà scandalo (...). Anche se spesso si identifica la corruzione con il peccato, in realtà si tratta di due realtà distinte, seppure legate tra loro (...). Il corrotto si stanca di chiedere perdono e finisce per credere di non doverlo più chiedere. Non ci si trasforma di colpo in corrotti, c'è un declino lungo, nel quale si scivola e che non si identifica necessariamente con una serie di peccati (...). Il peccatore, nel riconoscersi tale, in qualche modo ammette che ciò a cui ha aderito, o aderisce, è falso" (pp. 92-95). Riconoscersi peccatori non è appena riconoscersi limitati: "Significa mettersi davanti a Dio, che è il nostro tutto, presentandogli noi stessi, cioè il nostro niente. Le nostre miserie, i nostri peccati" (p. 48). L'uomo deve liberamente guardare con sincerità a se stesso e al suo peccato, avvertire il suo vuoto. "Noi non possiamo essere superbi" (p. 59). E questo è già una grazia che Dio ci dona.
B. Di fronte al peccato dell'uomo Dio che cosa è?
S. Giovanni nella sua prima lettera dice che "Dio è amore". Il Papa declina ancora più precisamente quest'amore: "Lui è misericordia, la misericordia è il primo attributo di Dio. È il nome di Dio" (p. 96). La misericordia di Dio è strettamente connessa alla fedeltà: egli non può rinnegare il suo patto d'amore con cui si è per sempre legato all'uomo. E Gesù è il volto di questa misericordia. E si tratta di una misericordia "larga", incommensurabilmente più grande del nostro peccato. Nell'intervista si riportano alcune parole del Card. Albino Luciani sul grande confessore Leopoldo Mantic: "Un confessore, mio amico, che andava a confessarsi da lui, ha detto: ' Padre, lei è troppo largo. Io mi confesso volentieri da lei, ma mi pare che sia troppo largo'. E padre Leopoldo: 'Ma chi è stato largo figlio mio? È Stato il Signore a essere largo; mica io sono morto per i peccati, è il Signore che è morto per i peccati'." (p. 29). E quelle di un prefazio della Liturgia ambrosiana: "Ti sei chinato sulle nostre ferite e ci hai guarito, donandoci una medicina più forte delle nostre piaghe, una misericordia più grande della nostra colpa. Così anche il peccato, in virtù del tuo invincibile amore, è servito a elevarci alla vita divina" (p. 49-50). Alle p. 97-98 il Papa cita due perle di S. Ambrogio: "La colpa (di Adamo ed Eva ci ha giovato più di quanto ci abbia nociuto, poiché essa ha dato occasione alla misericordia divina di redimerci (...). Dio ha preferito che ci fossero più uomini da salvare e ai quali poter perdonare il peccato, che avere soltanto l'unico Adamo, il quale restasse libero dalla colpa". Per cui Bergoglio ama ripetere che il luogo in cui accade l'incontro di Cristo con l'uomo è il peccato di quast'ultimo e "solo chi è stato toccato, accarezzato dalla tenerezza della misericordia, conosce veramente il Signore" (p. 50).
C. Che ruolo gioca la Chiesa nell'opera di misericordia di Dio?
In questo essa è, secondo il pensiero del Pontefice, essenziale. Se l'uomo sinceramente vuole essere perdonato da Dio non può saltare l‘incontro con la Chiesa, in concreto quello che egli chiama "il dono della confessione". Di fronte alla domanda se non basterebbe in fondo pentirsi e chiedere perdono da soli, egli risponde prima sottolinenado che è Gesù ad aver assegnato questo compito ai Vescovi e ai sacerdoti, poi sottolinea il valore sociale e oggettivo della confessione: "Noi siamo esseri sociali. Se tu non sei capace di parlare dei tuoi sbagli con il fratello, stai sicuro che non sei capace di parlarne neanche con Dio e così finisci per confessarti con lo specchio, davanti a te stesso (...). Confessarsi davanti a un sacerdote è un modo per mettere la mia vita nelle mani e nel cuore di un altro, che in quel momento agisce in nome e per conto di Gesù. È un modo per essere concreti e autentici (...). C'è un'oggettività in questo gesto, nel mio genuflettermi di fronte al prete, che in quel momento è il tramite della grazia che mi raggiunge e mi guarisce. E ricorda l'esempio di S. Ignazio di Loyola (pp. 37-38).
Poi il Papa, nel libro, sottolinea come i confessori devono esercitare il loro ministero . E lo fa a partire dalla sua esperienza di confessore per tanti anni:
- anzitutto la Chiesa chiama le cose col proprio nome e quindi condanna il peccato. (p. 66)
- ma accoglie il peccatore e fa festa con lui come il padre misericordioso della parabola del Figliol prodigo: "La Chiesa non è nel mondo per condannare, ma per permettere l'incontro con quell'amore viscerale che è la misericordia di Dio (...). L'ospedale da campo, l'immagine con la quale mi piace descrivere questa "Chiesa in uscita", ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte. È una struttura mobile, di primo soccorso, di pronto intervento, per evitare che i combattenti muoiano" (pp. 66-68).
- La Chiesa non smette mai di considerare come una persona colui che pecca: il Papa fa due esempi (la "signora" prostituta argentina e le "persone" gay, pp. 73-75).
- Bisogna fare attenzione a non diventare come i dottori della Legge che a furia di sentirsi bravi osservanti della Legge mosaica avevano fatto scemare in loro lo stupore di essere salvati da Dio. Questo è alla radice del male della chiesa, il clericalismo, sentirsi un po' al sicuro, puri, "in grado di potercela fare da soli (...). E se uno è un ministro di Dio, finisce per credersi separato dal popolo, padrone della dottrina, titolare di un potere, chiuso alle sorprese di Dio (...). A volte mi sono sorpreso a pensare che ad alcune persone tanto rigide farebbe bene una scivolata, perché così, riconoscendosi peccatori, incontrerebbero Gesù (pp.81-82).
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In ultimo (alle pp.90ss) il Papa sottolinea un valore della misericordia a cui forse non penseremmo: la dimensione sociale. Una società con più misericordia nei rapporti, nell'accoglienza dei più bisognosi, sarebbe inevitabilmente una società più giusta. Una giustizia più misericordiosa può salvare l'uomo dal suo degrado sociale (contro la pena di morte, il reinserimento sociale nel mondo del lavoro di un carcerato): "Non c'è giustizia senza perdono (...), la capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale. Il mancato perdono. Il rifarsi alla legge dell''occhio per occhio, dente per dente" rischia di alimenatre una spirale di conflitti senza fine.
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Una sintesi di tutto il pensiero del Papa sulla misericordia potrebbe forse essere la frase che un giorno gli disse una vecchietta di 92 anni: "Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe" (p. 40).
SINTESI DELL’INTERVENTO DI
Bekir Ben
Buona sera e grazie a tutti. Ringrazio Francesco, gli amici del Centro Culturale “Il Sentiero” che ho conosciuto ieri sera, che attraverso don Pino Vitrano mi hanno invitato a questo momento che è per me molto importante e anche difficile. Sono infatti molto emozionato perché è la prima volta che parlo di fronte ad un pubblico così importante e che racconto alcune cose importanti della mia vita. Prima di cominciare vi porto il saluto di Fratel Biagio che, come sapete ormai da due mesi ha lasciato Palermo e la Missione “Speranza e carità” per raggiungere a piedi Roma e incontrare il Papa. In questi giorni si trova nei pressi di Foggia e prosegue il suo viaggio, per portare a tutti il suo messaggio di speranza e carità.
Ho accettato questo invito alcune settimane fa, perché mi ha colpito subito che dovevo parlare della misericordia. La Misericordia nella mia religione, l’Islam, è una cosa molto importante ed io ho pensato che avrei dovuto parlare di questo. Poi man mano che passavano i giorni parlando con Francesco e don Pino ho capito che certo dovevo parlare della misericordia nell’Islam, ma che dovevo anche raccontare la mia storia. E questo mi ha fatto un poco preoccupare perché non pensavo che quanto è successo nella mia vita poteva interessare anche altri. Ecco perché anche adesso sono molto timoroso.
Meglio allora che prima racconto quello che mi è accaduto.
Sono nato a Tunisi ed ho 47 anni. Subito dopo il diploma in Grafico e Decoratore d’interni, mi sono trasferito in Sicilia per trovare lavoro, circa 26 anni fa. Nel mio paese avevo condotto una vita normale e serena perché venivo da una famiglia che non mi ha fatto mancare nulla. Da giovane non ero neanche molto religioso. Mi professavo ateo. Mi sono avvicinato all’Islam non per tradizione familiare o convenienza sociale, ma perché nell’Islam ho trovato le risposte alle domande più importanti che avevo in quel momento.
A Palermo ho fatto tanti lavori, ma la mia passione rimane il disegno e la pittura, come per Fratel Biagio che ama la pittura e l’arte, forse più di me. Dipingo prevalentemente interni e mi chiamano spesso per lavorare insieme ad architetti per arredare case, uffici negozi, ecc.
Un giorno del 1996 a causa di alcune cattive amicizie mi sono trovato, mio malgrado, ad avere problemi con la giustizia. Ho passato momenti veramente difficili e pensavo di non potercela fare. La grave situazione che vivevo è cambiata grazie all’incontro con una assistente sociale che lavorava oltre che nel settore della giustizia anche con la Missione di Fratel Biagio. Prese a cuore la mia persona e ottenne dal Tribunale che io potessi scontare la pena non in carcere ma nella Missione Speranza e Carità,
Non conoscevo la Missione né conoscevo Fratel Biagio. Accettai di trasferirmi in Via Archirafi perché non volevo tornare in Tunisia con in più la condanna sul collo. Da subito mi colpì un fatto: io ero musulmano, ma fui accolto dai molti cristiani presenti, ai quali non importava più di tanto il motivo della mia permanenza fra loro. Infatti, già allora eravamo numerosi, con storie diverse, moltissime erano storie di sacrifici e di dolori, di abbandono della propria terra e della propria famiglia. Ma tutto ciò non aveva alcuna importanza nella vita quotidiana che si faceva in missione.
Appena giunto Fratel Biagio, come fa con tutti quelli che arrivano, mi chiese cosa sapevo fare. Ed io risposi che ero pittore. Da quel giorno appena c’era qualcosa da pitturare: ringhiere, pareti, mobili, chiamava me ed io cercavo di fare del mio meglio. Mi sembrava il minimo che potevo fare, visto che ero stato accolto in quel modo. Poi si accorsero che sapevo anche dipingere e così cominciai a dipingere quadri o pareti, secondo quello che era necessario.
Sono rimasto in tutto per 8 anni, più di quelli che aveva stabilito il tribunale, finché sono tornato un cittadino come tutti gli altri. Ma non era vero, perché quegli anni mi avevano cambiato più di tutti quelli passati in precedenza. Posso dire che durante la permanenza in Missione non mi è stato chiesto niente: ho potuto fare la mia vita, tenere i rapporti che avevo anche fuori dalla missione, seguire la mia religione e pregare quando e come volevo.
Poi ho lasciato la Missione e ripreso la mia vita al di fuori. Mi sono sposato con una ragazza tunisina conosciuta a Palermo. Ho due figli, Abramo di 7 anni e Romesa di 5 anni. Sono nati qua, parlano correttamente l’italiano (ma meno l’arabo che però capiscono perfettamente). Sono trascorsi più di 6 anni da quando ho lasciato la Missione: ho una casa tutta mia dove abito con la mia famiglia. Quando ricevo un telefonata da don Pino lascio tutto perché a lui e a Fratel Biagio devo tutto. In Missione ho fatto tante cose che mi farà piacere farvi vedere se verrete a trovarmi. In questo momento sono stato onorato perché mi è stato chiesto di dipingere otto enormi quadri che saranno posti nella chiesa che si trova in Via Decollati.
Quando penso a quello che mi è successo mi domando: sono stato sfortunato o c’è qualcosa di cui posso ringraziare Allàh? E’ Lui che ha avuto misericordia con la mia vita che sembrava persa e distrutta. Ed ora ho più chiaro e posso dire perché sono stato salvato dalla misericordia.
La Misericordia è una disposizione della fede e in quanto tale il credente musulmano è tenuto ad andare verso tutti gli esseri umani. Quando gli uomini danno prova di Misericordia fra di loro, fra le nazioni, fra membri della stessa famiglia, così come nei confronti di tutte le altre creature, allora esprimono l’indice più autentico di civiltà.
A questo proposito ricordo, una tradizione che si fa risalire al Profeta Maometto. Essa dice: “Non crederete finché non sarete Misericordiosi”. I Compagni del Profeta risposero:” O Messaggero di Dio, noi siamo tutti Misericordiosi”. Il Profeta riprese allora: “Non intendo la Misericordia che ognuno di voi prova naturalmente per la propria compagna, ma una Misericordia che si estende a tutti”. Ciò significa che provare un tale sentimento per i propri amici, per i propri figli o per i propri cari è comune alla maggior parte di tutti gli uomini, ma l’Islam esige di ampliare questa bontà ad una cerchia ancor più vasta.
Questo io lo avevo imparato sui libri e per tradizione, ma solo alla Missione è divenuto un fatto concreto, perché è diventato concreto attraverso Fratel Biagio, don Pino, Fratello Giovanni e tanti altri che non posso elencare, alcuni dei quali sono qui presenti.
La tradizione islamica attribuisce al nostro creatore tanti nomi. Fra questi nomi divini, quelli che vengono citati più spesso e che ritornano più frequentemente sulle labbra del fedele musulmano sono certamente ar-Rahman e ar- Rahim: il Misericordioso ed il Clemente. Quindi per noi musulmani parlare di Misericordia è una cosa normale, perché è il perno attorno a cui ruota la nostra vita. Vi dico solo che nel Corano la parola “Misericordia” è ripetuta ben 286 volte.
Secondo l’Islam il valore dell'uomo non si trova nella sua fisicità, ma nella sua spiritualità, dove ci sono i sentimenti, dove si provano le emozioni e dove nascono la sofferenza, la misericordia, l’amore e la pietà: cioè il cuore.
Il credente musulmano deve avere un cuore sensibile alla sofferenza. È da un cuore sensibile, pieno di ràhmah, che viene messo in moto il sentimento filantropico, per cui, chi lo possiede, aiuta i deboli, ha pietà verso i poveri e i bisognosi. Un cuore così tiene lontano dagli abusi e dal crimine, per cui chi lo possiede diventa una fonte di bene, per tutti coloro che vivono con lui e che gli stanno vicino. Per questo motivo la Misericordia del credente proviene dalla Misericordia di Allàh. Il credente ha un cuore compassionevole, perché il suo ideale di vita è quello rappresentato dalla Misericordia del suo Creatore, cioè di Allàh.
Vorrei dire un’ultima cosa sul libro di questa sera. Non l’ho letto, me lo hanno regalato in questa occasione e prometto che lo leggerò. Vivo da tanti anni tra voi a Palermo e seguo quanto accade in Italia e in Sicilia; quindi so cos’è l’Anno della misericordia, cos’è il Giubileo, cosa significa passare attraverso la Porta Santa, anche perché una delle 4 che ci sono a Palermo è nella nostra Missione e molti dei presenti lo sanno perché l’hanno attraversata. Ed io ho dipinto la prima, quella che poi il vento ha distrutto.
Per questi motivi penso che questo Anno della misericordia possa essere una grande occasione per voi e per tutti. Vedo che il mondo ha bisogno di praticare la Misericordia, di viverla come valore essenziale nelle relazioni umane e nelle decisioni politiche. Questo lo vedo ogni giorno nelle vita che si fa in Missione e lo vedo come molti cercano di farlo accogliendo i tanti immigrati che giungono in Italia e in Europa. In un mondo pieno di ingiustizie e di egoismo, di violenze e di guerre, la scelta della Misericordia come argomento di riflessione e di azione non può che essere condivisa ed apprezzata da tutti. I musulmani vogliono sostenere questi sforzi del Papa, dei cattolici e di tutti gli uomini per dare concretezza a questo valore comune. Recuperare questo valore umano e religioso significa aprire il cuore alla speranza, al perdono, alla giustizia e alla pace tra gli uomini.
Per questo sono contento di essere qui questa sera e per questo spero che possiamo continuare insieme in futuro.
SINTESI DELL’INTERVENTO DI
SALVATORE CUFFARO
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Il libro di papa Francesco, di cui parliamo questa sera, è bellissimo!
Il titolo: “Il nome di Dio è Misericordia”, altrettanto.
Io però mi permetto una piccola licenza, in forza dell’esperienza di questi ultimi anni e dico: “Il nome di Cristo è Misericordia”. So che in fondo Dio e Cristo sono la stessa cosa, però in carcere il volto della Misericordia è quello di Cristo. Lo dico per l’esperienza fatta dai miei compagni detenuti che con me hanno capito quanto sia importante la Misericordia di Dio in quel luogo. E per dirla con Bekir Ben, che ha parlato prima di me, di chi crede in Dio in generale. La fede in Dio, quella dei cristiani e quella degli islamici, va messa in un’unica categoria.
Io credo che nelle carceri dove si vive nella miseria, si vive anche una realtà che per molti versi ha gli occhi tristi, ma veri, della vita. Questo porta certamente sfiducia, malessere, dolore, ed è forse il cilicio che avvolge chi vive in carcere; quindi, non solo i detenuti ma anche gli agenti, il personale amministrativo, i volontari, insomma tutte le persone che vi stanno dentro.
Lo chiamo cilicio perché so che avvolge il corpo e la mente e porta con sé la possibilità che siano la fede e la speranza a sorreggere chi lo porta sulla sua persona. E sono altresì convinto, e lo posso testimoniare, che né l’uomo né la legge, né questa nostra giustizia che amministra le carceri, hanno la forza di disconoscere la potenza della Misericordia di Cristo. Dico “hanno la forza” perché purtroppo ho il dovere anche di dire che spesso l’uomo e la legge tendono a far sì che persino la Misericordia sia disconosciuta in carcere.
In carcere grida l’uomo con la sua essenza, grida col corpo e grida con lo spirito. Ma credo che quello che grida ancora più forte sia il suo silenzio. Quello di migliaia di detenuti che non hanno nome, non hanno voce, perché nessuno li conosce, nessuno sa che ci sono, perché a molti, cioè a gran parte del nostro Paese, non gliene importa niente nella migliore delle ipotesi di queste persone. Perché questi sono quelli che dicono: teneteli là dentro e non ne parliamo più. In carcere grida persino la vita, nella sua essenza più vera, e mentre grida ha la voglia e la forza di spezzare il cuore di quelli che vivono dentro.
Nonostante tutto questo, Cristo è in ascolto. Se ne percepisce nel silenzio la voce e soprattutto se ne percepisce la presenza ed è proprio la sua Misericordia che innaffia e coltiva i petali della vita delle persone che ci vivono dentro e fa del carcere un luogo consacrato. Voglio a tal proposito citare una bellissima frase dello scrittore e poeta inglese, Oscar Wilde, che non era di un credente, la quale dice: “Dove il dolore dimora il suolo è sacro”. La frase si trova in una bellissima poesia, che si chiama “La ballata del carcere di Reading”, che vi invito a leggere. Ricordo a tal proposito che egli fece qualche annetto di carcere vittima del puritanesimo inglese vittoriano. In questa ballata, dice della sua permanenza in questo carcere londinese, e spiega che il suolo è sacro perché lo rende sacro la Misericordia, che è per me il nome di Cristo: Bekir lo chiamerebbe diversamente, me è la stessa cosa. Perché ha l'anima di chi vive le carceri, il volto dei detenuti e soprattutto il calore dell'amore delle cose semplici, di quelle che mancano e di quelle che in qualche modo la Misericordia tenta di riportare, perché nello stesso tempo dono e solidarietà. Ed è per moltissimi vi assicuro sostegno e misura di come va vissuta la pena.
Io credo di aver trovato il bandolo della matassa di come affrontare il carcere, di come viverlo, quando ho compreso che la forza e il coraggio di affrontare un'esperienza così difficile poteva venire dall'amore di chi mi voleva bene, ma anche dall'amore che potevo dare. Non dico ciò a caso perché l'amore che danno e possono dare i detenuti è tanto, ma non sempre ricevono l'amore che vorrebbero; nel senso che la gran parte di loro non ha famiglia, non ha amici, non ha nessuno. E quindi questo fa la differenza perché so - per averlo vissuto - che la misura della pena e la capacità di affrontarla dipende dal non sentirsi abbandonati, perché non c'è nulla di più difficile da accettare per un detenuto che sapere che nessuno si occupa di lui, che nessuno pensa a lui, che non c'è nessuno che lo aspetta, che gli dia motivo per poter tornare a vivere. La misura per chi crede la da Cristo, perché assembla queste cose, vi dà il valore aggiunto, le fa diventare una cosa più importante.
Io credo che il nostro Paese abbia scelto di non far crescere la Misericordia dentro le carceri. E fino a quando lo sceglie uno Stato - che poi siamo noi - è già difficile da accettare, ma quando è l’intera società che lo decide, questo è ancora più scandaloso. Uno Stato che scegliesse di essere misericordioso e che spiegasse a un detenuto che non sta in carcere, perché lo Stato deve vendicarsi, perché uno Stato non può essere vendicativo, ma che chiede al detenuto di stare in carcere perché lì dentro si deve rieducare poi non può, dopo averglielo detto, tenerlo dentro e proibirgli di parlare con i suoi figli, oppure quando vanno a trovarlo, costringerlo a guardarli attraverso i vetri senza poterne sentire il respiro o poterli accarezzare. Questo non solo non è Misericordia, ma non è nemmeno rieducazione. Non è misericordioso una Stato che dice che in questo Paese non c’è l’ergastolo, mentre in effetti c’è ed è ostativo. Infatti, non si capisce perché una persona dovrebbe essere rieducata, se deve rimanere tutta la vita dentro una cella. Non è Misericordia, non dare una speranza; e non è misericordioso un Paese che mentre si batte contro tutte le pene di morte poi non si chiede perché nelle sue carceri ci sono più suicidi di quante morti provoca l’esecuzione capitale nei Paesi in cui è prevista.
Credo che lo Stato e la società dovrebbero spezzare queste catene, che sono le catene del pregiudizio e smettere di guardare a queste persone come se fossero irredimibili o peggio ancora come se non dovessero più avere la possibilità di tornare ad essere utili alla società. Uno Stato non può essere vendicativo. Posso capire la resistenza da parte delle vittime ad accettare queste cose. Ma uno Stato deve essere nei confronti dei suoi figli misericordioso. Non lo dico perché sono cristiano ed ho davanti a me la parabola del Padre misericordioso. Penso che anche nel Corano, vero Bekir? si parli di un padre che prima di pensare al figlio che sta bene si interessa di quello che ha bisogno. Se lo Stato riuscisse a spezzare questa catena spirituale cadrebbero tutte le altre. Sono convinto che se questo succedesse, la società riuscirebbe a concepire il carcere non come luogo per emarginare per sempre i cattivi, ma come il luogo dove alcune persone che hanno sbagliato stanno tentando di portare avanti un processo di rieducazione e di risocializzazione. Se il nostro Paese, la nostra società riuscissero in qualche modo a far partire un messaggio che vada in questa direzione, io credo che anche la politica tornerebbe ad essere utile.
La politica non si occupa delle carceri in modo positivo perché si occupa di tutto quello che porta consenso; e siccome oggi la tutela dei detenuti non da consenso, allora la politica non se ne occupa. Bisognerebbe cominciare con l’ammettere che dentro le carceri c’è un pezzo di società che forse non è la migliore, ma che comunque è fatta di persone che hanno storie e sentimenti, che soffrono, che gioiscono, che amano e queste persone hanno la loro dignità e meritano di essere trattate da persone. E poi io penso che se questo accadesse cambierebbe l'atteggiamento della politica nei confronti delle carceri e anche il nostro modo di essere come Paese e come cittadini, perché veramente potremmo dire di essere un popolo libero, libero soprattutto da condizionamenti e da pregiudizi.
Perché c'è un pregiudizio nei confronti dei detenuti. Lo dico anch’io con grande responsabilità perché era lo stesso pregiudizio che avevo quando per la prima volta ne ho varcato la soglia. E aggiungo che non solo tornerebbe ad essere libera la nostra gente, ma sarebbe e diventerebbe buono il nostro Paese, perché un Paese deve essere buono perché è giusto che lo sia è non perché ha bisogno di farlo credere.
Faccio a tal proposito un esempio con la vicenda dei due Marò che sono rimasti in India tanto tempo. Con tutto il rispetto che ho per loro e ai quali sono affettuosamente legato e sono felicissimo che siano tornati a casa, mi chiedo: se è giusto che il nostro Paese abbia fatto tutto quello che serviva per riportarli a casa, se siamo andati fino alla Corte internazionale per perorare la loro causa, se persino la Corte del Kerala, un Paese che forse non ha la nostra stessa tradizione giuridica, ha riconosciuto il loro bisogno di curarsi a casa; se tutto questo è vero e giusto, perché poi questo stesso Paese tiene migliaia di persone dentro le carceri quando dipende da noi e non da altri poter dare a loro per esempio la possibilità di andare a curarsi in famiglia? Mi sorge il dubbio che tutto questo sia stato fatto non per una esigenza etica, ma perché serviva per darlo in pasto all'opinione pubblica, che ne aveva bisogno, mentre non serve che la gente che sta dentro le nostre celle, che muore di leucemia, di linfoma, di carcinoma, debba trovare la possibilità di ottenere lo stesso diritto che hanno avuto i Marò, solo per citare l’esempio che ho fatto.
Ecco, io credo che la Misericordia innanzitutto si propone a tutti gli uomini, dentro e fuori le carceri. A me è accaduto. Io ho ascoltato la Misericordia propormi queste scelte e l’ho ascoltata soprattutto perché più forte è il bisogno di andare incontro alla Misericordia quando si vive una condizione di dolore, di sofferenza. Quando ciò accade è come se arrivasse questo Cristo misericordioso, il quale nonostante tu sia in carcere, dentro una cella, riesce a liberarti dalle catene, dalle catene spirituali, dalle catene del pensiero. Bene io posso testimoniare che ho faticato perché la Misericordia ha faticato con me; ho faticato per riscattare i miei errori, per riscattare il mio passato, ma soprattutto ho avuto l'impressione che questa Misericordia non solo mi aiutasse a riscattare il passato, ma ponesse un cardine per ricominciare a ricostruire il mio futuro.
Essa non si è fermata, mi ha aiutato a costruire perché l’ho sentita accanto, perché ha camminato con me, perché ha consolato la mia libertà crocefissa e si fatta partecipe di questa mia voglia, ed io ho sentito, giorno dopo giorno, questo mio giogo diventare più leggero. Ho visto, giorno dopo giorno, la trasformazione del carcere per opera della Misericordia.
Io sono entrato in un carcere sterile e la Misericordia lo ha trasformato in un carcere fecondo. So di dire cose complicate e forse paradossali. Ma credo che in questi momenti di sventura e di dolore la Misericordia riesce non solo ad essere Cristo che è con te, ma soprattutto ad essere speranza, quello che serve a darti la forza perché tu che hai toccato il fondo non smetta di amare. Ho capito che tante persone che amavano ma non erano amate, trovavano la loro forza in questa Misericordia, perché da questa Misericordia si sentivano amate.
Il carcere è una comunità, e come tutte le comunità ha cose buone e cose meno buone. E in ogni comunità c’è la Misericordia. Io che avevo vissuto la mia comunità da libero, non me ne ero accorto o non l’avevo percepito. Non avevo percepito la presenza della Misericordia nella comunità in cui vivevo. Il carcere mi ha dato la forza per capirne l’importanza. E così ho deciso che devo diventare testimone di questa Misericordia, per poter comunicare, a tutti che anche in quel contesto difficile, grazie alla Misericordia si può diventare partecipi della manifestazione della tenerezza di Cristo, di Dio, in questo caso.
Io credo e lo dico molto serenamente che se non avessi vissuto l'esperienza del carcere almeno tre cose che mi sono successe non avrei avuto la capacità di viverle e di far le mie. Ed è chiaro che sono stato aiutato in questo percorso.
Per prima cosa la possibilità di incontrare la mia anima.
Potreste dire: ma non lo sapevi che ce l'avevi?
Si, l’avevo, ma cosa me ne importava.
Ricordo ancora come fosse oggi, che nelle notti in cui in cui ero inchiodato nel mio letto, in quell'unico pezzo di intimità che avevo (e che per di più il carcere, per ricordarmi che neanche quello è mio, lo viola ogni 15 giorni con le ispezioni periodiche cui tutti sono sottoposti), in quelle notti lì in cui avevo solo la compagnia della mia testa, delle mie angosce, delle mie paure, delle mie preoccupazioni ho incominciato a parlare con l'unica persona con cui potevo parlare: la mia anima. Perché, con chi potevo parlare, altrimenti? E ho capito che parlare con l’anima è difficile, ma è bello: intanto perché non hai bisogno di mentire, perché ti “sgama” subito, e poi perché è importante perché riesci a dire tante cose che non pensavi di poter dire e che soprattutto ti aiuta a conoscerti.
La seconda cosa che devo al carcere e lo dico e lo racconto sempre perché può essere di aiuto ad altri, è l’aver riordinato la gerarchia dei valori della mia vita. Non è che non sapevo quali fossero, però non è la stesa cosa. Prediamo ad esempio la famiglia: non è che non ne conoscessi il valore, però non andavo da mio padre perché c’era la riunione della Giunta di Governo, non andavo alla festa di mio figlio, perché c’era la campagna elettorale, non accompagnavo mia moglie, perché ero a Roma, e così via per tanti altri esempi. Vivevo spinto e trascinato dagli impegni e non mi rendevo conto che ci sono cose che vanno rispettate e alle quali vanno affidate tempo e qualità in una gerarchia vera e che non possono essere trascurate. Tutto ciò ho avuto modo di viverlo e capirlo perché a me la vita ha presentato il conto. A me l’ha presentato mandandomi in carcere, però la vita lo presenta in tanti modi. Io ho avuto quello meno pesante, non certamente il più cattivo. Dico questo perché se soltanto uno di voi avesse la possibilità di riordinare la sua vita dando il giusto tempo in quantità e qualità ai valori in cui crede e tenesse conto della mia testimonianza di questa sera, almeno in una cosa mi sentirei appagato.
Concludo, con la terza, tornando al titolo del libro.
Sono stato cresciuto ed educato in una famiglia cattolicissima. Ricordo che mia madre mi imponeva di andare a Messa già a quattro anni. Solo dopo i sette ho capito che quella che sembrava imposizione in effetti era educazione. Ho studiato in una scuola cattolica, quella dei Salesiani, ho fatto tutte le pratiche religiose possibili, a partire dai pellegrinaggi in tutti i Santuari del Mondo, perché cercavo “Il nome di Dio” e credevo di averlo trovato. Non mi sono vergognato di nulla a tal punto da affidare da Presidente della Regione Siciliana la nostra isola alla Madonna, con grave scorno di tanti. Poi sono entrato in carcere e ho incontrato il volto della Misericordia, che non è quello di Dio, ma di Cristo. Direte: è la stessa cosa. No! Perché io ho visto l’uomo crocifisso scendere dalla croce e vivere con me. Mi ha preso per mano e l’ho visto diventare Cireneo, quando invece Lui era stato aiutato da un cireneo, l’ho visto mangiare con me ed utilizzare la stessa latrina alla turca che io ho utilizzato io per cinque anni. Ho conosciuto l’uomo Gesù Cristo. Lo hanno capito i miei compagni di cella perché hanno visto quegli occhi del crocefisso piangere dentro la cella; hanno visto le mani allargate in segno d'amore; hanno visto il sangue delle palme che benediva nonostante stesse soffrendo: era l'uomo e io credo che questa sia stata l'esperienza più forte che mi abbia dato il carcere. Ha stravolto la mia idea di fede che era tutta concentrata verso Dio e che invece mi ha fatto conoscere nella Trinità, la parte umana quella che rimane con te, che sta con te, dalla quale e con la quale puoi ragionare e parlare tutti i giorni.
Questo credo che per me sia stata la Misericordia. Questa cosa mi è talmente piaciuta che ho pensato di scrivere a papa Francesco. Ho scritto - lo dico con un po' di vanità - perché è venuto in carcere ed ho apprezzato quello che ha fatto per noi. Vi racconto quanto accaduto: lui è entrato a Rebibbia e ha stravolto tutto il cerimoniale. Quando è arrivato, è uscito dalla macchina, ha alzato le transenne, in barba ai cento agenti di polizia penitenziaria che erano lì a stare attenti che i detenuti non facessero male al Papa e ha detto: “State tranquilli qui mi proteggono loro”. Potete capire cosa è successo subito dopo: l’inferno! Lui ha preteso che lo baciassero in volto, non nell’anello, E in quella mischia per la prima volta ho perso: invece di baciare sono stato baciato. Ho deciso di scrivere a papa Francesco in preparazione al Giubileo dei carcerati che si celebrerà il 6 novembre, innanzitutto per ringraziarlo della bellissima iniziativa di venirci a trovare in carcere. Poi ho aggiunto che se anche la giustizia umana non consentirà ai detenuti di essere presenti quel giorno in piazza San Pietro e quindi di poter varcare la Porta Santa, sarà parimenti santo il varcare la soglia delle celle che custodiscono la sofferenza e privano della libertà le persone detenute. La scrissi come segno di riconoscimento. Poi me la sono vista pubblicata nella lettera che papa Francesco ha scritto a Mons. Rino Fisichella.
Papa Francesco e la Misericordia hanno dato un sentimento al carcere e hanno fatto sì che il carcere sia non storia di corpi, ma storia di anime.
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FOTO DELL'INCONTRO
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