...nihil humani a me alienum puto

La conversione al cristianesimo nei primi secoli

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                     Viera Catalfamo                                    Don Carmelo Vicari

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Un popolo lieto che cambia la storia

(di Viera Catalfamo)

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Trent'anni dopo la morte di Cristo, era possibile fare già, nella comunità cristiana di Roma, una moltitudine immensa di martiri; neanche un secolo dopo, un funzionario integro come Plinio il Giovane scriveva all'imperatore che, nella sua provincia di Bitinia, il nuovo culto dei cristiani aveva invaso città e campagne. Il mondo greco romano non si convertì a nessuna delle religioni orientali, non si convertì alla filosofia, non si convertì al giudaismo: ma si è convertito al cristianesimo. Perché esso è riuscito là dove sono falliti tutti gli altri tentativi di trasformazione o di conquista degli spiriti antichi? E soprattutto, questo fenomeno che ha investito il mondo antico ha una pertinenza con le urgenze e le esigenze del nostro momento storico?
Da queste domande ha preso le mosse la presentazione del testo di Gustave Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, proposta a Palermo il 30 gennaio dal Centro Culturale Il sentiero; iniziativa che si colloca all'interno dell'ormai tradizionale appuntamento della presentazione del "libro del mese": una proposta di lettura mensile per sostenere il lavoro personale e comune, nella consapevolezza che «leggere partecipa al percorso educativo per la ricostruzione dell'umano» (Luigi Giussani).
Un testo "ardito", quello di Bardy: all'apparenza non agevole, massiccio, ricco di riferimenti alle fonti, ormai datato (la prima edizione è degli anni '40); arditezza che si attesta non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto al contenuto: lo studio del fenomeno della conversione al cristianesimo nel periodo che va dagli anni appena successivi alla morte di Cristo al III-IV secolo d. C. La presentazione, a cura di don Carmelo Vicari, è stata un tentativo di mostrare la portata della proposta e la sua pertinenza alla situazione in cui tutti ci troviamo a vivere.
Un'osservazione metodologica ha aperto l'intervento del relatore: leggere Bardy è decisivo perché bisogna parlare di ciò che conta con chi ritiene che ciò, appunto, conti.
Sembra un banale gioco di parole, ma non lo è per nulla. La conversione al cristianesimo nei primi secoli fu un evento dirompente per il mondo antico e le sue conseguenze arrivano fino ad oggi: leggere Bardy ci permette di affrontare il primo rischio rispetto ad un evento come questo, che è proprio quello di negarne la portata. La fede dell'autore - che è uno dei più grandi studiosi di patrologia del secolo scorso, inserito nella cornice della vivissima facoltà teologica di Lyon-Fourvière -, il suo coinvolgimento personale e scientifico sulla questione, lungi dal rappresentare un vizio, costituiscono la conditio sine qua non di un'autentica comprensione.
Accadde, in quell'epoca che vede l'apogeo e il declino dell'impero, che una setta, proveniente da una sua parte marginale, formata per lo più da gente sicuramente non in vista, lo conquistò nel giro di tre secoli: non tanto (e non solo) in termini di potere, ma soprattutto al livello culturale fondamentale della concezione di sé. Fu un fenomeno tale da incidere sulla coscienza dell'identità della persona: don Carmelo Vicari ha parlato, a proposito, di big bang dell'umano. Sorse, allora, un fattore talmente dirompente che ancora oggi entra nella definizione che noi diamo di noi stessi.
Nel mondo antico non esisteva la persona: c'erano i cittadini romani, coloro che non avevano la cittadinanza e, infine, gli schiavi, che non erano considerati esseri umani ma cose. La prima rivoluzione fu proprio nella concezione dell'io, e questo costituisce anche la sintesi delle ragioni per le quali un cittadino dell'impero poteva aderire al cristianesimo: esso offriva uno sguardo nuovo sull'io e sulla realtà, che rispondeva alle esigenze a cui nessuno, nel mondo antico, era riuscito a rispondere. Esigenza di verità, esigenza di libertà, possibilità di bontà autentica: una risposta per tutti e per tutta la persona - mentre le risposte allora disponibili - filosofia, religioni orientali, perfino lo stesso giudaismo - erano sempre, come ha sottolineato don Carmelo Vicari, parziali e selettive: per alcuni e per certi aspetti.
Perché, dunque, la conversione al cristianesimo? Perché i cristiani erano una presenza: un popolo nuovo, la cui nota distintiva era la letizia, la possibilità di vivere un giudizio positivo sul reale - in un momento in cui si andavano costruendo le premesse perché di lì a poco crollasse il sistema sociale, le popolazioni stanziate fuori dall'impero cominciassero a rifluire in massa dentro i confini, scoppiassero epidemie e crisi di approvvigionamento. I cristiani vivevano tutto questo, come ha detto con espressione sintetica vivacissima don Carmelo Vicari, cantando. Proprio a questo livello si registra la pertinenza del testo di Bardy - e dell'esperienza che descrive - alle questioni del nostro tempo: solo un'esperienza di corrispondenza così, di questa letizia, può far ripartire l'io e commuovere l'umano rattrappito. Con le parole di don Vicari: alle schiavitù odierne, alle gravi questioni suscitate dall'incontro con le diversità, al problema della violenza - in tutte le sue forme - può rispondere solo un popolo di cantautori, fatto di "io" che ricominciano a vivere e comunicano la vita tutt'intorno a sé. Il riferimento conclusivo non poteva non essere all'Evangelii gaudium: è la gioia per una presenza che sostiene la storia di un'umanità nuova. Questo il fattore che Bardy tratteggia - proprio attraverso quel continuo riferimento alle fonti di cui in apparenza si crederebbe di poter fare a meno.
Nella consapevolezza sempre viva che di un mistero, al fondo, si tratta. Tutte le ragioni fornite nel testo, infatti, non esauriscono il fenomeno, ma al contrario lo lasciano intatto nella sua capacità di provocazione e di stupore.

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